lunedì 18 febbraio 2013

Karen, la guerra segreta in Birmania


REPORTAGE

Karen, la guerra segreta in Birmania

Combattono per l'indipendenza della loro regione. I militari li hanno quasi sterminati. Un anno di violenze.

di Fabio Polese
da Oo Kray Kee
Una candela accesa dentro la piccola capanna illumina la notte piovosa. L’umidità della giungla penetra nelle ossa, mentre la temperatura scende inesorabilmente ora dopo ora. Il soldato con il viso pulito e i denti macchiati di rosso che strimpella su una chitarra, però, sembra non accorgersene.
Si chiama Say Thoo, ha 31 anni e si è arruolato sette anni fa volontariamente nell’Esercito di liberazione Karen (Knla). La sua è una storia come molte altre: viveva a Rangoon, la capitale della Birmania ma, finite le scuole, è tornato nella terra dei suoi avi per lottare per il futuro del suo popolo. Nella guerra più lunga di sempre.
KAREN IN LOTTA PER SOPRAVVIVERE. Non ne parlano i media, tacciono gli attivisti. Si combatte nella giungla della Birmania orientale, al confine con la Thailandia, tra montagne e vallate che ancora non conoscono la modernità.
È qui che vivono i Karen - 7 milioni di persone circa su 48 milioni di popolazione - che dal 1949 lottano per la propria sopravvivenza fisica e culturale.
NEL PAESE UN CENTINAIO DI ETNIE. La Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989, è infatti composta da un centinaio di etnie forzatamente inglobate durante il periodo coloniale inglese, nel XIX secolo.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, fu sancito un trattato post coloniale che avrebbe permesso al mosaico etnico birmano la costituzione di diversi Stati federali. Ma il trattato non è mai stato osservato da Rangoon. E, anzi, nel 1962 la giunta ha espressamente dichiarato l’intenzione di eliminare le «identità culturali e politiche non birmane», mettendo al bando nelle scuole l'insegnamento di lingue non nazionali. E anche quella dei Karen è sparita.
SCONTRO TRA SOLDATI E GUERRIGLIA. Da allora, il conflitto tra guerriglieri e militari si è fatto ancora più duro. Portando morte, fuga e disperazione.
«Sono sposato, ma mia moglie sta nel campo profughi thailandese di Umphiem», racconta aLettera43.it il soldato accettando una sigaretta, senza mai smettere di sorridere. «Un giorno, quando vinceremo, potremo essere finalmente liberi di vivere insieme nel nostro Stato».

La fuga verso i campi profughi della Thailandia

Stupro, mine e deportazione sono gli strumenti di lotta delle truppe dell’esercito. Prima dell’elezione, nel 2011, del generale Thein Sein a guida del Paese - l’uomo definito il «Gorbaciov birmano» - gli attacchi ai villaggi erano all’ordine del giorno.
«Chi rimaneva vivo, veniva preso e usato come scudo umano per i successivi attacchi o costretto ai lavori forzati», spiegano alcuni abitanti del villaggio Oo Kray Kee.
Per sfuggire alla violenza moltissimi sono scappati: almeno 500 mila sono i rifugiati interni e 130 mila persone sono finite nei campi profughi thailandesi.
DAL 1981 LA VIOLENZA SULLE DONNE. Chi è rimasto ha sofferto. Nel rapporto State of terror, realizzato dalla Karen women organisation (Kwo), vengono citate le storie di 959 donne che dal 1981 al 2006 hanno subito violenza sessuale da parte di soldati e ufficiali birmani.
Ma è solo una minima parte: secondo l’associazione Karen human right group (Khrg) sarebbero migliaia i casi sconosciuti che non si possono documentare.
IL DRAMMA DELLE MINE ANTI-UOMO. Si contano, e soprattutto si vedono, i segni delle mine antiuomo: nascosti nei sentieri della giunga migliaia di ordigni - la Birmania è uno dei Paesi più minati al mondo, secondo le Nazioni unite - hanno ucciso o mutilato almeno 3 mila persone dal 1999 a oggi.
Saw Min Naing, 30 anni appena compiuti, ha perso la vista nel settembre del 2008. Stava rientrando alla base militare dopo giorni di combattimento a fuoco con l’esercito birmano quando, vicino al villaggio di Klal Lor Sal, è scoppiata una mina. Da quel giorno non ci vede più.
Toe Doh, invece, nella sporca guerra ha perso una gamba, ma imbraccia ancora fiero il suo Ak47 per «difendere il mio popolo dagli attacchi dell’oppressore».
L'AIUTO DELLA ONLUS ITALIANA. Il ritornello è sempre lo stesso, sulla bocca della gente o nella canzone della rivoluzione che strimpella il soldato per scaldare la notte.
fonte lettera 43

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